I primi lanci di un alpino paracadutista - Gruppo Alpini di Spilimbergo "Ten. Vittorio Zatti" - Sezione ANA Pordenone

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I primi lanci di un alpino paracadutista
Dai ricordi di Renato Camilotti
Da oltre cinquantanni alle varie specializzazioni delle truppe alpine si è aggiunto anche il paracadutismo, e alcuni soci del nostro Gruppo hanno militato in questi reparti.
Chi intende fare questa esperienza deve seguire il corso di paracadutismo alla Scuola militare di Pisa. Quando ci si addestra per i primi lanci, la retorica della Scuola recita che il primo lancio è come il primo bacio della morosa. Sarà anche così, ma nei miei ricordi non c'è stato un nesso evidente tra primo bacio e primo lancio, forse perché il primo bacio è talmente lontano nel tempo che il ricordo è un po' sbiadito, o forse perché il primo lancio è stato, dal punto di vista emotivo, un disastro.
Al tempo del mio addestramento gli aerei usati per i lanci erano dei bimotori ad elica con doppia coda chiamati C119, molto rumorosi e traballanti, che mi facevano venire il mal di mare. Nel periodo invernale la Scuola usava un campo di lancio più piccolo di quello estivo, le cui dimensioni non permettevano di lanciarsi a più di quattordici uomini per volta, sette per ognuna delle porte laterali dell'aereo, per non correre il rischio di finire fuori campo. Per questo motivo l'aereo, dopo aver imbarcato tutti gli allievi paracadutisti, era costretto a fare più passaggi, lo ero tra quelli che si sarebbero lanciati per ultimi. Al primo passaggio, usciti i primi quattordici uomini, il direttore del lancio, normalmente un maresciallo (che ti da il via e che, se esiti, ti da una spinta «esortatrice»), si girò verso di noi e con un gesto eloquente (il pugno chiuso e il pollice alzato) ci segnalò che tutto era okay. Ma il nostro pensiero unanime fu: «Anche se sono tutti morti sfracellati non ce lo direbbe mai». Per fortuna, mentre l'aereo virava per ritornare sopra il campo di atterraggio, dalle porte spalancate si poteva vedere sparsi per il cielo tanti batuffoli bianchi (così ci apparvero i paracaduti aperti) e questo ci rincuorò non poco.

Quando venne il mio turno di lancio le gambe erano talmente molli che mi ci volle uno sforzo di volontà per arrivare alla porta. Non sentii il segnale del direttore di lancio e mi trovai fuori dell'aereo senza capire cosa fosse avvenuto. Per fortuna il paracadute si aprì bene da solo, altrimenti non sarei stato in grado di aprire il paracadute di emergenza. Nell'uscire avevo preso tanto avvitamento: le funi erano tutte attorcigliate facendomi girare come una trottola, prima da una parte e poi dall'altra. Quando le funi furono sbrogliate, finalmente mi resi conto di veleggiare in un silenzio celeste. La gioia durò pochi secondi perché una voce, resa gracchiante da un megafono, mi richiamò subito alla realtà dandomi ordini su come prepararmi alla caduta, la quale fu esteticamente rovinosa ma senza conseguenze, tranne le insolenze dell'ufficiale che coordinava il campo di lancio.
Il secondo lancio ebbe una storia diversa, e solo la fortuna dei neofiti impedì che diventasse una tragedia. Eravamo all'aeroporto San Giusto di Pisa in attesa dell'imbarco. Un direttore di lancio richiamò rudemente un mio commilitone, intimandogli che, se indugiava sulla porta dell'aereo prima di lanciarsi, come aveva fatto il giorno precedente, lo avrebbe tirato indietro, impedendoli il lancio, e conseguentemente lo avrebbe spedito a qualche reparto di fanteria. Se si era cacciati dai paracadutisti, oltre all'umiliazione per non avercela fatta a superare le prove, si perdeva anche l'indennità di lancio, che per noi era una bella cifra, tale da permetterci di passare il periodo di naia senza problemi economici. Sentendo il discorso del graduato dissi a me stesso:

«lo non mi farò cacciare».

Quando ci imbarcammo, mi accorsi che il commilitone precedentemente richiamato aveva il turno di uscita dall'aereo uguale al mio, solo sull'altra porta. Giunto il momento di uscire, mi buttai senza indugio. Fuori, invece di trovarmi all'aria aperta, mi trovai avvolto in qualcosa di bianco, senza capire che cosa fosse. In pochi secondi il mio cervello cercava di darsi una spiegazione razionale di quello che mi stava succedendo, senza riuscirci. Pensai anche di essere morto e che quel bianco che mi avvolgeva fossero le nuvole del paradiso. Ad ogni modo mi dissi:

«Paradiso o no, attendo ancora qualche secondo e poi tiro la maniglia del paracadute d'emergenza».

Non servì arrivare a ciò perché il paracadute dorsale si dispiegò bene e cominciò la lenta discesa, ma, dopo pochi attimi, arrivai con i piedi sulla calotta di un altro paracadute, più lento nella discesa del mio, che evidentemente sorreggeva un paracadutista più leggero di me. Camminai sulla calotta tesa e ripresi a scendere senza più problemi.
Nelle settimane seguenti ragionai molto sull'accaduto prospettandomi diverse possibili spiegazioni. Probabilmente il commilitone, che era una persona minuta e leggera, uscendo dalla porta opposta alla mia, aveva ritardato un attimo l'uscita, oppure io, per paura di essere richiamato, avevo anticipato il salto: basta un attimo di scoordinamento e, visto che dall'aereo escono due persone intervallate di mezzo secondo, invece di trovarsi liberi nell'aria si rischia di incrociare il compagno dell'altra porta. Questo può provocare seri incidenti, quali darsi delle tremende testate con l'elmetto, oppure impigliarsi nei fasci funicolari impedendo ai paracadute di aprirsi, e precipitare così tutti e due a terra. Nel mio caso forse era successo che mi ero infilato all'interno della tela del paracadute che mi aveva preceduto, per fortuna senza impigliarmi. Il mio paracadute si aprì, la discesa rallentò la corsa e anche l'altro paracadute si dispiegò sotto di me calando dolcemente verso terra.

Anche il terzo lancio ha avuto una storia che forse merita di essere raccontata. Sempre all'aeroporto di Pisa, i paracadutisti, per i preparativi al lancio, si mettono in coppia e uno controlla l'imbracatura all'altro. A me capitò di far coppia con un anziano sottufficiale della Folgore e, fra le tante cose, il graduato si informò della provenienza dell'occasionale compagno. Saputo che abitavo a Sacile, il maresciallo si complimentò con me, confidandomi che conosceva bene la cittadina, che vi aveva trascorso un lungo periodo da militare in carriera e che serbava un bel ricordo anche della popolazione.
Intanto il tempo passava e l'ordine d'imbarco tardava a venire. Il maresciallo, dopo aver preso informazioni sul perché del ritardo, mi spiegò che i responsabili dell'esercitazione erano incerti se procedere con il volo e i successivi lanci oppure rinviare tutto a causa del forte vento che caratterizzava la giornata. Alla fine si decise di partire. Mentre salivamo nell'aereo, l'esperto graduato mi disse:

«Stai attento: quando c'è tanto vento e sei per aria e stai per finire contro un ostacolo pericoloso, è inutile contrastare il vento per evitare il pericolo, è molto meglio assecondarlo e superare l'ostacolo».

Il paracadute che si usava a quei tempi non si poteva dirigere, se non di poco, con qualche lieve spostamento, proprio per evitare di finire sugli alberi o in qualche buca.
In quel lancio ero capitato nel primo turno, e dopo mezz'ora di volo mi lanciai insieme ad altri tredici paracadutisti. Anche gli aerei che seguivano lanciarono i primi gruppi. Nel frattempo il vento era aumentato e spingeva tutti ai limiti del campo di lancio. Il mio paracadute puntò in direzione di un largo e fangoso fossato che delimitava un lato dell'area destinata all'atterraggio. Nonostante il tentativo di rimanere all'interno dell'area, la traiettoria del volo non cambiava: ero destinato a fare un bagno fuori stagione in acque maleodoranti. Solo all'ultimo istante, ormai a pochi metri da terra, mi ricordai del consiglio del maresciallo. Tirando le funi inclinai la calotta del paracadute in modo che il vento si insaccasse all'interno, passai quasi raso terra sopra il fossato e atterrai in un campo di granoturco, che, trascinato dal vento, distrussi per qualche decina di metri. Per fortuna le pannocchie erano già state raccolte e sul campo si trovavano solo le canne spoglie.
La maggior parte dei paracadutisti lanciati in quel passaggio finì fuori zona, per cui si sospesero i lanci e gli altri ritornarono all'aeroporto di partenza.
Per la cronaca, i lanci successivi, compresi quelli in montagna, non ebbero storia degna di nota.
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